INDEXICALITY
Riflettendo sul testo da produrre per il progetto Index, sono partita da due punti fondamentali. Il primo, riguarda il concetto stesso di curatela: la sua evoluzione storica fino alle odierne finalità e le personali declinazioni. Il secondo concerne invece il cuore del progetto di tale archivio contemporaneo, portando ad interrogandomi su quale contributo ulteriore avremmo potuto offrire tutti noi a Index.
In un’intervista, il celebre curatore Hans Ulrich Obrist, discuteva della mutata figura curatoriale, sostenendone il ruolo di ancella dell’arte, di veicolo per gli artisti nell’espressione delle loro idee. Un concetto in cui credo moltissimo e che negli stessi testi critici cerco di portare in esposizione.
Nella letteratura artistica, Orbrist ha tradotto tale impegno nel medium dell’intervista. Nel 2003 pubblica appunto l’opera Interviste, un immenso volume diviso in capitoli non enunciati scanditi per artista ed organizzati in elenco alfabetico. Una soluzione dettata da un processo impersonale che introduce il concetto assenza curatoriale. Un’idea potentissima, che anche a livello estetico-editoriale sottolinea della curatela il suo valore di ancella dell’arte. Eppure Obrist non riesce ad andare fino in fondo. Il curatore è in realtà onnipresente, detta le leggi del dialogo, compare con le sue domande acute e preformulate.
Il genere letterario dell’intervista negli ultimi quarant’anni ha avuto un successo piuttosto insolito nell’ambito delle arti visive, tanto che, a giudicare dalla pratica contemporanea, si potrebbe pensare che si tratti della forma preferita dai critici d’arte, sostiene Michael Diers. Ripescando però cosa accadeva quarant’anni fa in Italia, alle origini ovvero della sua comparsa nella letteratura artistica, si scova un volume che in Obrist non trova spazio di citazione: Autoritratto di Carla Lonzi (1969). Un libro vicino e lontano alle Interviste, che mette in dialogo Lonzi, critica d’arte e filosofa femminista, con artisti quali: Accardi, Castellani, Consagra, Fontana, Kounellis, Pascali, Rotella, etc.
La modalità dell’intervista negli ultimi anni ha avuto un largo seguito (storicamente interessante pensando alla linea dell’evoluzione della critica artistico-letteraria da Le vite del Vasari ad oggi), ma una delle vie perse per strada è proprio quella aperta da Carla Lonzi.
Paradossalmente, nell’Autoritratto di Lonzi vince una struttura editoriale-estetica di cui Obrist non tiene conto e che invece sovrasta con il pesante incalzare enciclopedico delle sue interviste. Carla Lonzi, al contrario, rompe completamente questo schema, lo annienta, dando priorità a due componenti fondamentali e inesistenti in Obrist: la simultaneità e l’intimità del dialogo.
Seguendo il principio della fluidità del discorso, in Lonzi non esistono capitoli: tutto è un discorso continuo e ininterrotto, come un flusso di coscienza a cui partecipano molteplici voci. Ecco perché Autoritratto. Lei si rispecchia in ogni artista con cui dialoga, il discorso degli altri è il proprio, tra gli interlocutori non c’è una linea di separazione ma un unico pensiero che si arricchisce della soggettività di ognuno. Ecco proposto in una forma molto più pregnante il concetto di assenza della figura curatoriale (esposta in vario modo anche nei contenuti), dove il dualismo artista-curatore si riunisce nella comunanza di visioni, nella distruzione della figura del critico d’arte, e nella simultaneità dei discorsi.
Dunque è qui che voglio spingere la ricerca, arrivando con gli artisti alla formulazione di un’operazione auto-collettiva scritta per Index. Il concept diventa dunque la produzione di un’operazione unica. In questo archivio, che a sua volta è un interessantissimo progetto curatoriale e di ricerca in Basilicata, gli artisti non hanno mai dialogato tra di loro se non nella sintesi del curatore. L’esperimento più interessante per me rispetto a questo progetto di archivio contemporaneo sta nell’essere io spettatrice e insieme attrice dell’incontro con gli artisti, godermi l’esperienza di tre personalità artistiche differenti (per certi aspetti totalmente differenti), provenienti da percorsi, pensieri ed esiti visivi diversi, che in un lasso di tempo simultaneo si incontrano, esattamente come se fosse una collettiva. L’incontro con gli artisti, il discorso collettivo, è l’operazione unica e irripetibile prodotta per Index. La regola è una sola: accettare di perdere la propria individualità in favore di ciò che si dice piuttosto che di chi lo dice. Il testo che segue non riporta dunque i nomi dei protagonisti ma solo le battute sequenziali del dialogo. Questa è la parola plurale. Non una pluralità di parole, ma un’unica voce plurale, corale. Quella che ci permette di riavvicinare, almeno nell’espediente dell’abbandono e dell’assenza nel testo del nome del singolo, rendendoci tutti ancella di un’espressione artistica globale.
Ringrazio in questa occasione Lucia Ghidoni e Angelo Bianco, per avermi dato l’opportunità di confrontarmi con gli importanti temi di Index e i suoi artisti, per il loro continuo supporto e la grande qualità del dialogo, per l’infinita pazienza di un’attesa tutta meridionale.
Un grazie agli artisti Angelo Caruso, Francesco Sollazzo e Luca Centola per essersi prestati alla co-creazione di questo testo. Sono stati affrontati qui i temi della terra come approdo mitico e sentimentale, di madre a cui ci si ribella e verso cui spesso si fa ritorno. Poi il tema dell’amore e l’aporia del sacro nell’indagine artistica. Vi è infine la politica e l’obbligo morale per l’uomo-artista cresciuto in una terra di abbandono di agire nella e per la cosa pubblica. Visioni a volte contrastanti, che ne costituiscono una identitaria nella moltitudine delle sue diversità.
Grazie a voi per essere qua. Chiedo scusa del ritardo (si rompe il ghiaccio. Ognuno inizia già a intervenire). In questo percorso due libri mi hanno aiutato tantissimo e uno è un libro che uno di voi conosce benissimo, di Carla Lonzi, non è vero Francesco? Si chiama “Autoritratto” (ne spiego perché, dichiaro l’uso arbitrario che ne faccio per portare l’interesse verso la questione dell’Uno, dell’identità come moltitudine di diversità, dello specchio, dell’insieme).
Ora, perché tutto questo preambolo? perché è qui che si gioca il ruolo dell’assenza che è fondamentale anche rispetto al discorso su Index. In particolare quando rifletto sull’assenza rifletto sull’assenza di individualismo. Cerco di spiegarmi meglio. Poi voi interrompetemi, eh, anzi se volete dire qualcosa in merito prima che continui.
Sì in realtà sì.
Vai.
Eh, e secondo me, boh, boh, ah, non so lo usi troppo come punto di riferimento. Cioè io credo anche alla presa di responsabilità del curatore e anche al suo intervento critico, e quindi anche alla scrittura, e quindi a che cosa scrive.
Però l’assenza
non è un allontanarsi dalle proprie responsabilità, anzi, anche
per dirvi che il testo che andremo a produrre per Index, non mi pone estranea
alla scrittura, anzi, quello che andrò a scrivere sarà il nostro
discorso sostanzialmente ma chiaramente fatto con dei tagli, cioè c’è
una regia dietro, ovvero un canale interpretativo dietro questa regia
(… Silenzio).
Ok non ti ho convinto, ma il fatto che partecipi è già un
buon segnale, buonissimo (… Risate. Si va avanti, si racconta di
Francesco come l’unico degli artisti Index a non essere nato in Basilicata).
Vuoi dirci la tua storia?
Ok, no semplicemente ho i miei parenti, i miei nonni materni sono originari della Basilicata.
Di dove?
Di Monte.
Ah di Monte.
Sì, sono nati a Montescaglioso ma una volta sposati sono venuti su a Milano.
Ah, perciò sei di Milano.
Sì, perciò anche mia madre è nata qui a Milano, anche io sono di Milano, però, ecco, da quando sono piccolino ho passato tutte le mie estati a Montescaglioso.
Hai capito, bene bene, allora sei un lucano, scusa!
Ahaha no, non sono un lucano.
Infatti Angelo ha colto, tu sei un lucano! E quindi questa è la prima novità che portiamo, e la cosa bella che mi ha colpito della sua biografia è proprio questa, lui della Basilicata, lasciami esagerare…
Esagera!...
La Basilicata lui non l’ha mai conosciuta d’inverno, lui la vive d’estate. Cioè, la Basilicata per lui è un sentimento fondamentalmente è un’esperienza di vita temporanea.
La Bella estate di Pavese.
Esatto! Come del resto l’altro filo conduttore che c’è tra di voi, tra voi tre, è Milano. Angelo ad esempio vi si è trasferito parecchio tempo fa.
Sì io sono stato a Pisticci fino al ‘78 avevo 22 anni, lavoravo a Pisticci in un’azienda importante però ho lasciato perché vedevo che non c’era nessuna speranza di cambiamento e diciamo ho lasciato sia perché avevo voglia di fare politica attiva, sociale, ma anche per seguire il lato artistico delle cose che mi interessavano, perciò diciamo che a 22 anni senza conoscere nessuno, mi sono fatto trasferire a Milano perché ho pensato, se deve succedere qualcosa in Italia succede a Milano. Però ho avuto tutta la vita qui divisa in due parallele. Una legata ai movimenti sociali che avvenivano, centri sociali, sindacato, insieme a questo filone artistico di arte sociale fino alla fine degli anni ’90. Alla fine ho abbandonato la politica e mi sono dedicato completamente all’arte. Dal 2000 mi sono dedicato parecchio e poi quando sono andato in pensione c’è stata una forte svolta, ho aperto uno spazio City Art che adesso si chiama Spazio Dolomiti, faccio il direttore artistico di questo spazio e eventi di public art in collaborazione con il Comune di Milano e, devo dare una notizia, sono tra i cinque finalisti del premio Arte Laguna, per un progetto in Basilicata, quello che conosci Stefania. La giuria l’ha voluto premiare e sono contento.
Questa è una bellissima notizia! Ecco, vi dicevo, Angelo è tutto questo, per cui come denominatore comune c’è anche Milano, la Lombardia, come anche per Luca che nell’ultimo anno è stato premiato da alcune gallerie iniziando una collaborazione attiva con queste realtà milanesi. C’è anche di mezzo il tema della fuga infatti, o nuovamente dell’assenza. Luca prima ancora di essere fotografo è un ricercatore...
Sì nel mio lavoro la fotografia in sé è la fine del percorso. Non penso all’immagine in sé ma all’importanza storica di ciò che vado a scattare, ad esempio il ruolo che quell’opificio ha avuto sul territorio e quali novità o migliorie ha portato nella vita sociale del luogo dal suo impianto al suo abbandono, oppure quali mancanze, quali amputazioni ha portato nella vita sociale ed economica della stessa comunità operaria, agricola o altro.
Qualche punto di riferimento? come autori che ti hanno ispirato, eccetera?
No i punti di riferimento non sono dei punti di riferimento reali, cioè sono degli appoggi, degli appoggi fondamentali quando stai cedendo, emm. Io, come tutti i fotografi credo, sono partito dalla fotografia di street e di denuncia sociale, ma alla fine mi sono accorto che avevo paura della gente. Fondamentalmente mi allontanavo sempre di più fino a decidere di non entrare e mi sono avvicinato all’architettura, dovuto anche ai miei studi. Quindi i miei punti di riferimento sono diventati non solo fotografi, ma anche architetti, disegnatori, fumettisti.
Tipo tipo?
Moebius è stato per me fondamentale per quanto riguarda la visione dal nulla che aveva delle strutture architettoniche. Naturalmente gli studi non finisco e grazie a Dio ho una schiera di personaggi immaginari, ahah, no che sono stati reali, e che nel momento in cui cedo mi supportano.
(Sfogliamo intanto le immagini. Ogni artista guarda quelle dell’altro finché ad uno di loro non viene chiesto di parlare di un’opera in particolare). Ecco allora, in realtà c’è la didascalia e c’è già scritto tutto.
Dai su!
Provo a spiegarlo io male (inizia a parlarne, benissimo e appassionato. Poi qualche secondo di silenzio. Un grande respiro). Che è poi si è concretizzato come, attraverso un’evidenza all’azione, un’opera fotografica, un piccolo fotomontaggio e il libro d’artista, eh (sospiro profondo. Di nuovo silenzio). No, dovrei dire tante cose.
E noi siamo qui.
Essì va beh perché mi ha sempre sorpreso che il tema dell’amore è sempre poco affrontato nell’arte contemporanea rispetto ad altre forme d’arte, come nella canzone, nel romanzo, e quindi è comunque un tema che ho cercato di affrontare abbastanza nel mio lavoro.
Cioè con le foto interpreti l’amore di questa coppia?
Ecco dimenticavo, come causa scatenante di tutto il lavoro c’è questa foto che ho scoperto, aspetta vediamo, la vedete nel portfolio, è in basso, quella di lei affianco alla scultura a Matera. Sì eccola (Si alternano i discorsi in un balletto di domanda e risposta, di curiosità crescente)
(Un nuovo sospirone) Anche qui, perché ho scelto di riprendere la forma del dialogo? Perché, sempre riprendendo Pavese, avevo in mente i “Dialoghi con Leucò” e quindi la loro ripresa comunque del mito. E quindi (sospirone), cioè il mito (sospirone). Sì considero il mito uno dei punti cardine della mia ricerca, quindi ho voluto fare una sorta di operazione mitica, esattamente come faccio operazioni mitiche quando intendo la Lucania nel mio lavoro, che è il mio territorio mitico.
Cioè sì nel senso effettivamente tu la Lucania la vivi…
Come un orizzonte mitico puramente biografico.
Sì sì ma io capisco perché tu giustamente la Lucania non l’hai vissuta quotidianamente, no? siccome io l’ho vissuta e anzi diciamo che la vivo ancora, soprattutto adesso che sono in pensione e poiché conosco tutti i meccanismi, la conosco, la vivo molto intensamente anche se fino a qualche anno fa avevo abbandonato ogni tipo di intervento. Prima la vivevo con tensione, ora invece la vivo con più tranquillità, in modo più rilassato, invece eh, insomma è sempre stato un contrasto per me la Basilicata, cioè l’ho sempre vissuta come attivo, da far qualcosa, da muovermi, da intervenire, da fare, ecco, se gli anni ’90 e gli anni ‘80 non facevo nulla, adesso se posso intervenire faccio qualcosa volentieri, ecco io adesso la Basilicata la vivo più come agente, no? E capisco invece tu giustamente…
No per me, cioè, è un paesaggio interiore.
Interiore giusto.
Tu prima dicevi che te ne sei andato con la consapevolezza che non ci fosse una speranza di cambiamento.
Essì perché io proprio nel ‘78 mi sono reso conto che o diventavo come tutti gli altri oppure ti facevano fuori, insomma, anche se io, devo dirti la verità, ho visto dagli anni 2000 veramente un cambiamento. Ho visto varie associazioni, artisti, che si muovono, come la Fondazione SoutHeritage. Sono quelle esperienze che bisogna valorizzare al massimo e che bisogna fare rete, no?, perché è l’unico modo che si ha. La Fondazione è l’unica esperienza in Basilicata sull’arte contemporanea vera, per questo io dico sono andato via, perché al tempo non vedevo speranza, cioè il nulla, per questo ho detto devo cambiare, ho fatto quella scelta radicale, anche in una città difficile come Milano.
Eh lo capisco. Anch’io sono spesso via, ma tornerò sempre qui e la speranza è proprio quella, di tornare e arricchire. La cosa che mi fa girare le balle letteralmente, però, è che in una terra come questa che da un po’ di anni ha la possibilità di avere un suo riscatto, ciò che non si crea in loco è la formazione di determinate professionalità e conoscenze.
Manca il confronto.
Sì manca il confronto!
Come credi che la Basilicata abbia influito sui tuoi lavori?
Ha influito sulla persona, non sul modo artistico. Il fatto di sentirsi tutelato in una piccola comunità, protetto, ti dà molta più forza, la forza anche di affrontare l’esterno una volta che esci di qui. Però allo stesso tempo è limitante, una volta che esci ti rendi conto che tutto quello che hai fatto, detto, pensato, è solamente nel nostro quartiere. Per questo c’è una parte che, che, che porta un’evoluzione del pensiero e una parte che ti lega a ciò che è il pensiero stesso del territorio.
(Toc toc, toctoctoc, toc
toc, toctoctoc, toc toc, toctoctoctoctoc, toctoctoctoctoc toctoctoctoctoc,
toctoctoctoctoc, toc, toctoctoctoctoc, toctoctoctoctoc, toc)
Vi siete accorti che sono un po’ autistico, dislessico giusto?
Ahhahahha.
(Toc toc toc toc toc toc) Ahah, per me è un po’ difficile parlare del mio lavoro, preferisco esprimermi (toctoctoctoctoc).
Io ho difficoltà sia a parlarne che a scriverlo perciò!
Ahhaha, a me viene l’ansia.
Sì anche a me.
Per questo Stefania dovrebbe scrivere piuttosto che farci parlare!
Ahhaha sono d’accordo.
Ahhaha guardate come sto accuratamente in silenzio in tutto questo.
Essì! (Ricominciamo a dialogare, ora con un nuovo coraggio. Si parla di coscienza politica, amore, lavori degli artisti)
E quindi il prodotto finale qual è? Riesci a descriverlo?
(Toctocotocotoctoctoctoctoctocotocotoc)
(Vanno avanti i discorsi)
E con chi ce l’hai? con chi ce l’hai?
Con nessuno, anzi.
Nooo, con quale santo?
Ho chiesto l’attivazione di una causa per la santificazione di una persona.
E chi è questa persona?
E questa persona era Lucio Fontana.
Eh la vedo dura. Però noi artisti dobbiamo essere così e sennò che cacchio.
Però devo dire la verità, lo spunto me l’ha dato Giulio Paolini. Sì perché avevo scovato in una vecchia rivista del 1970 dove c’era questa pagina in cui Paolini parlava di Lucio Fontana e lo autoproclamava santo e faceva riferimento anche a una tela di Lucio Fontana in cui lui aveva scritto “io sono un santo”. Ho raccolto questi documenti, li ho mandati alla Diocesi e in base a questi ho chiesto ufficialmente che si incominciassero le procedure e mai avrei pensato di ricevere una risposta.
Noooo ma dai!
E la risposta è meravigliosa!
Se volete ve la leggo.
Leggila! (La legge. Risate di sottofondo in certi tratti, religioso silenzio in altri) Ecco.
È stupenda.
Però guarda, cioè, in realtà ti dice che il emm, la chiamiamola, emmm, il … il modo di condurre un inizio di proclamazione non avviene dal fatto che tu gli hai scritto, ma deve essere il popolo a indirlo…
Io sono il popolo! Anche io sono il popolo!
Aspeeeetta, aspetta! (Risate) Però, possiamo prendere tanti esempi, no?, perciò è il popolo che in realtà porta alla proclamazione della santità, no?, cioè non è manco la Chiesa voglio dire, ma è la gente che vuole che tu diventi santo.
Ma sai una delle cose che interessava a me fare?
Eh ecco sentiamo.
C’era in mezzo anche il discorso della committenza, ok?, che per secoli e secoli la Chiesa è stata committente verso gli artisti, e quindi io ho voluto a mia volta fare il processo inverso, essere committente in maniera ovviamente involontaria e sfruttare loro per creare un’opera d’arte e non il contrario. Ecco e poi riprendere il tema della santità, del ritratto del santo, però in maniera iconoclastica, contemporanea, quindi non fare più il ritratto del santo ma comunque cercare di farlo ma in maniera differente, concettuale… Poi c’è sempre questo interesse permanente, per quanto mi riguarda, di riprendere artisti, opere del passato. Una costante, ormai mi sono arreso, è una costante.
E si ritorna all’immagine dell’assenza, no?
Eh sì, mi interessano i fantasmi.
Stefania dagli il mio numero! Ma tu dove vivi a Milano?
A Turlo.
Turlo? Dov’è Turlo?
Eh non lo so, dimmi tu dove vivi che te lo dico io dov’è.
Eh no ma io adesso non vivo proprio a Milano.
Eh va beh fa nulla!
Però lavoro a Borola.
Eh allora, dall’altra parte della città!
Ecco bene (risa).
Eh va beh ma un caffè ce lo possiamo prendere!
È vero vero sì sì.
Casomai vengo io lì non è un problema.
Vieni in libreria, io lavoro in una libreria.
Ma la libreria Borola?
Sì, quella libreria Coop. Tu conosci la biblioteca giusto?
Io sì ho fatto varie installazioni lì.
E che installazione hai fatto in biblioteca?
Allora ho fatto due installazioni a dire il vero lì, ho fatto un’installazione, ti parlo degli anni ’90, mi sembra, è stata un’installazione site specific proprio, ovvero ho fotografato il quartiere, poi queste immagini le ho…
Dovresti vedere che bel quartiere Stefania!
Sì? (Risate)
Ho fatto un lavoro sulla vetrina della biblioteca realizzato come se fosse un percorso, no?, un percorso di questo quartiere.
Hai fatto una mappa fotografica?
Sì ecco su tutta la vetrina della biblioteca.
Mi interessa molto perché vedi, mentre lo spazio di Francesco è quello della ricerca introspettiva attraverso gli altri, i fantasmi, e come atelier d’artista suo mi immagino una biblioteca…
No, non mi piacciono le biblioteche.
E qual è il tuo atelier?
Nessuno (ride). La testa boh, la testa, i libri e il computer.
Lo spazio in cui invece agisci tu, Angelo, è lo spazio di tutti, quello urbano, quello pubblico, quello paesaggistico. Una delle tue opere più significative, per me, è “Sul dorso impunemente”.
Questa è degli anni ’90, eh, quando i calanchi erano veramente la miseria più assoluta, però l’idea era proprio quella di dare un contributo, un segnale alle istituzioni e dire queste due realtà che sono i calanchi e il dirupo cerchiamo di valorizzarle e farle uscire dal loro contorno, e chi lo fa questo? Specialmente l’arte! Ecco perché ho fatto queste due istallazioni, l’altra con il laser intendo, io l’ho fatto davvero per amore verso il mio paese ma era un messaggio allargato, lavoriamo, facciamo e che l’arte diventi un punto di riferimento per il cambiamento dei nostri territori. E a me interessava sentire cosa pensavano le persone, e ci sono le citazioni qui nel testo, cioè ha sviluppato un dibattito nel paese, su che cosa era quest’installazione, perché potete immaginare nel ’90 fare questa installazione a Pisticci dove l’arte contemporanea era lontana mille miglia allora ha creato del dibattito, e questo è positivo.
L’arte pubblica come funzione e innesco di meccanismi sociali.
Se ci pensi d’altra parte Appunti Post Apocalittici non è altro una richiesta d’aiuto: tutti quanti pensano che l’apocalisse sia distante quando è accanto a casa tua e non lo sai. L’arte pubblica per me infatti non è quella che si fa in un luogo pubblico, ma si entra nell’ambito della politica, per questo, della res publica, cioè il concetto di politica come pensiero della collettività, e le fabbriche lo rappresentano, per quello le ritraggo, a quel punto si cambia la visione, si ritorna a un concetto di morale, di etica e di morale della cosa pubblica e questo per me è la funzione dell’arte, anzi è proprio l’arte in sé, emm io non sopporto gli stupori fini a se stessi, per cui l’arte che stupisce in quel momento ma che come contenuto non ha altro che la bellezza fine a se stessa, quella estetica, non come filosofia ma esclusivamente come estetismo, è uno smuovere tutto ciò che bloccato da un punto di vista della disaffezione della società per la società.
Se pensi all’esperienza di Contact, l’ho fatta una prima volta nel 2006, adesso nel 2017 sulle periferie, è stato forte, un lavoro fatto nel condominio dove abito io, ho trasformato questo condominio in un’opera dove c’erano 40 artisti che si relazionavano alle persone. Puoi immaginare in un condominio normale, non parlo di un centro sociale, ma fare un’operazione all’interno di un condominio popolare, credimi, ha cambiato i connotati dello spazio con la logica del coinvolgere. È stata un’operazione davvero grossa, che ha sconvolto, che ha cambiato davvero i connotati di questo luogo, che io li vedo i cambiamenti che ci sono stati nelle persone, mettere in contatto le persone, che era l’obiettivo, dell’arte che mette in relazione le persone.
(Così ancora discorsi. Un pensiero di fondo. Secondo la meccanica quantistica, le particelle elementari di cui tutto è costituito non hanno alcuna individualità.
Discorsi, discorsi. In noi umani, strutture macroscopiche di infinita complessità, l'individualità non è pensabile come una sorta di marchio originario immodificabile, ma si costituisce nell'interazione con gli altri e con il mondo: assomiglia a un campo più che a un atomo singolo, scrive Peter Pesic. Ricordo un’immagine “E ringrazia che ci sono io che sono una moltitudine!”.
Ancora discorsi. La Lucania
come terra dell’abbandono. Abbandonare: cedere, fare dono. E se l’identità
fosse un continuo e reciproco cedere e fare dono, un movimento orizzontale
piuttosto che verticale, un campo da coltivare, da contaminare, con la cura
delle domande, dei perché? Se la cura fosse l’assenza, la responsabilità
tacita e lenta di raccogliere il tutto in uno?
Discorsi, discorsi)
Stefania
Dubla
curatrice indipendente, critico. Vive e lavora a Matera.